
L’evoluzione tecnologica è entrata prepotentemente all’interno dell’organizzazione aziendale e del contesto lavorativo. Attraverso l’uso di smartphone, cellulari, e-mail, chat in tempo reale e altri sofisticati programmi, si corre il rischio che il lavoratore non abbia più la possibilità di fruire del proprio tempo libero senza l’invasiva presenza del proprio datore di lavoro.
L’utilizzo di questi strumenti di collegamento tra datore di lavoro e dipendente si presenta come un’arma a doppio taglio per il lavoratore, perché se da un lato consente certamente una flessibilizzazione della prestazione lavorativa in quanto permette ad esempio di lavorare anche in un luogo diverso da quello dell’azienda, dall’altro porta con sé il rischio di essere sempre connessi con il datore.
Ecco perché, in risposta a questa problematica, nasce e si diffonde il diritto alla disconnessione, la cui espressione indica proprio il diritto a non utilizzare le apparecchiature che connettono costantemente e senza soluzione di continuità il lavoratore alla propria prestazione lavorativa.
DI COSA SI TRATTA?
Il Diritto alla Disconnessione nasce dall’esigenza che il lavoratore possa staccare la spina dal proprio lavoro, una volta terminata la propria mansione lavorativa. In altre parole, il diritto alla disconnessione può essere inteso come Diritto all’irreperibilità.
Il diritto alla disconnessione trova il primo riconoscimento legislativo in Francia nel 2016, dove la “Loi du Travail” [1] prevede espressamente che le aziende con un numero di dipendenti superiore a 50 si impegnino, tramite accordi interni, a regolamentare il tempo libero (quello “offline”), del proprio personale dipendente e prevede, altresì, che al dipendente non possano essere inviate e-mail, comunicazioni, messaggi o telefonate al di fuori dell’orario di lavoro.
DIRITTO DI DISCONNESSIONE IN ITALIA
In realtà, il diritto alla disconnessione è un istituto dai confini ancora fumosi nel nostro ordinamento, anche se ha già trovato riconoscimento ufficiale all’estero e sia già diffusamente rispettato nella pratica aziendale nostrana.
A dire il vero, tale diritto viene preso in considerazione anche a livello normativo, nella legge che disciplina lo smart working in Italia. Quest’ultimo, anche conosciuto come lavoro agile, rappresenta una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa ampiamente adottata nella realtà lavorativa italiana e postula la possibilità per il dipendente di prestare la propria opera anche al di fuori dell’azienda, senza vincoli di orario.
L’orario, appunto: questo il punto in comune tra smart working e diritto alla disconnessione. La legge sul lavoro agile (l. 81/2017)chiarisce che il lavoratore è tendenzialmente libero di stabilire in autonomia i tempi di lavoro. L’unico vincolo, anzi, è dato proprio dalla durata massima dell’orario di lavoro. Raggiunto questo limite, anche il lavoratore “flessibile” ha il diritto di “staccare la spina” e rendersi irreperibile.
Mentre nell’ordinamento francese la disconnessione è qualificata espressamente come un diritto, una simile previsione non c’è nel sistema italiano. Tuttavia, nonostante si tratti di un tema giovane, la disconnessione ha già conosciuto alcune esperienze applicative, dove cioè la disconnessione è stata regolamentata attraverso accordi collettivi aziendali.

Ne sono un esempio l’accordo siglato tra la Barilla e le organizzazioni sindacali il 2 marzo 2015, dove sebbene non si faccia espressamente riferimento alla disconnessione, è però previsto che lo svolgimento della prestazione lavorativa deve avvenire nel «normale orario di lavoro della sede di appartenenza» e che «durante lo svolgimento dello Smart working, nell’ambito del normale orario di lavoro, la persona dovrà rendersi disponibile e contattabile tramite gli strumenti aziendali», a conferma del fatto che la disconnessione dovrebbe essere garantita in tutto l’arco temporale che eccede tale orario.
O ancora l’accordo di Enel del 4 aprile 2017, dove si precisa che «il lavoro agile rappresenta una mera variazione del luogo di adempimento della prestazione lavorativa», e non dell’orario di lavoro. Ne consegue che il il dipendente è tenuto ad essere a disposizione del datore di lavoro durante l’orario di lavoro e, pertanto, in quel periodo di tempo deve essere contattabile dal suo responsabile tramite gli strumenti tecnologici messi a sua disposizione.
Da quanto detto è evidente che alla luce del diritto alla disconnessione, l’istituto della reperibilità aziendale dovrà essere rivisto. Ora, se è vero che la reperibilità, detta anche pronta disponibilità, consiste nell’obbligo per il lavoratore di porsi nella condizione di essere prontamente rintracciato, fuori dal proprio orario di lavoro, è altrettanto vero che se il dipendente ha il diritto alla disconnessione, il tempo reperibile dovrà forzatamente essere coperto da una corrispondente indennità, stabilita in via continuativa o in base ai turni.
Cosa ne pensate? Siete d’accordo con questa normativa? Scrivetelo nei commenti!
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