L’impatto sull’occupazione a causa dell’epidemia di coronavirus potrebbe superare i 60mila posti di lavoro; questo è il quadro che si prospetta a 3 mesi di distanza dal primo caso mondiale di coronavirus.
La situazione è particolarmente preoccupante in Italia, in particolare nel settore manifatturiero e nel turismo: ulteriori danni per alberghi e b&b, ma anche bar, ristoranti e attività commerciali. Ma esiste una soluzione al problema che, nel nostro paese, non ha mai preso realmente piede come nel resto del mondo: lo Smartworking.
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Mentre la situazione si aggrava ogni giorno che passa sul numero dei contagiati da coronavirus, si moltiplicano le soluzioni adottate da parte delle aziende nelle regioni interessate. Una delle soluzioni più adottate è quella del telelavoro, chiamato anche Smartworking.
Come viene spiegato direttamente dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si tratta di “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
L’Italia si avvia dunque a seguire le orme della Cina, dove da settimane è in atto quello che è stato definito “il più grande esperimento di Smartworking mai messo in atto“, milioni di lavoratori costretti a casa per la quarantena obbligatoria stabilita dal governo per tutti i cittadini, per contenere la diffusione del coronavirus, al lavoro con telefono e computer. Persino le scuole si sono organizzate in questo modo, dalle elementari al liceo.
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In tutte quelle situazioni in cui non è possibile applicare lo Smartworking (come il lavoro in fabbrica, ristoranti, ecc.) la scelta se mantenere l’attività operativa spetta all’azienda. Se infatti quest’ultima reputa l’operatività pericolosa per la salute dei propri dipendenti, può optare per interrompere la produzione. Esistono però delle eccezioni; ad esempio ciò che ha scelto la sede FIAT di Torino qualche giorno fa è una giusta via di mezzo. L’azienda ha infatti deciso di mantenere la produzione attiva, riducendo i ritmi di produzione in modo da avere meno dipendenti possibile a contatto tra di loro nei reparti solitamente più affollati, come quelli di montaggio e rifinitura.
Per tutti gli altri dipendenti, è prevista l’astensione dal lavoro nei casi in cui soffrano di immunodepressione certificata in sede medica, mentre per quelli che presentano sintomatologia respiratoria o influenzale, anche lieve, dovranno contattare il medico curante per considerare l’astensione dal lavoro. L’autorizzazione delle missioni seguirà criteri di stretta indispensabilità, e queste saranno sostituite preferibilmente da videoconferenze.
In sostanza nel caso in cui il lavoro agile non sia applicabile, spetta all’azienda decidere il da farsi o, nei casi di dubbio sulla salute del dipendente, bisognerà verificare il reale pericolo per un eventuale contagio.
Cosa dice la legge?
La legge è abbastanza chiara in merito alle varie situazioni che si possono creare: Non andare a lavoro per la paura del Coronavirus fa rischiare anche il licenziamento. Da solo, infatti, il timore di contrarre il virus non giustifica l’assenza. La situazione è completamente diversa nel caso in cui esista una disposizione delle autorità.
Se il dipendente non si reca al lavoro perché l’ordinanza vieta di lasciare il comune di domicilio, l’assenza è giustificata e permane il diritto alla retribuzione. Tuttavia è necessario un provvedimento normativo che preveda l’erogazione della cassa integrazione ordinaria per questo tipo di causali, in modo che l’azienda possa far ricorso all’ammortizzatore sociale.
Se l’assenza è dovuta a quarantena obbligatoria, si verifica una situazione analoga a quella di un trattamento sanitario e l’assenza va gestita come malattia, in base alle previsioni di legge e contrattuali.
Se invece il lavoratore si pone in quarantena volontaria in quanto di rientro da una zona a rischio, per esempio, in attesa del provvedimento dell’autorità sanitaria (a cui va comunicata tale situazione) l’assenza può essere gestita come astensione derivante da provvedimento amministrativo.
In sostanza, ciò che per molti può sembrare un vero e proprio tracollo del sistema economico nazionale e non a causa del coronavirus, può in realtà diventare un trampolino di lancio per tutte quelle modalità di lavoro telematico che, nel nostro paese, sono sempre state bistrattate a favore di metodi di lavoro ordinari, sempre più obsoleti. Cosa ne pensate?